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Tramonto della Signoria, Guicciardini, la Controriforma

Ceramica

Il 25 aprile 1501, ormai stremata, Faenza decide di capitolare, ottenendo le condizioni di una resa onorevole - senza confische e vendette - nonché la libertà per Astorgio III e i suoi parenti.

Il Borgia mantiene tutte le promesse tranne l'ultima: fa infatti prigionieri Astorgio e il fratellastro Giovanni Evangelista (figlio di Cassandra Pavoni) e li spedisce a Roma. Qui una fine orrenda attende i due ragazzi: prima rinchiusi e seviziati a Castel S.Angelo, poi strangolati e gettati nel Tevere. Finisce così tragicamente la dinastia dei Manfredi, signori di Faenza per due secoli.

Di lì a poco muore anche Alessandro VI e, con l'elezione di Giulio II della Rovere, il Valentino cade in disgrazia. Ne approfitta Venezia, che si "allarga" in Romagna. Sotto il dominio illuminato della Serenissima Faenza si trova bene, ma è una breve parentesi. Nel 1509 Venezia è costretta a cedere la Romagna a Giulio II, alleatosi con Francia, Spagna e Impero. Faenza perciò entra definitivamente nel tessuto dello Stato Pontificio dal quale - pur con qualche intermezzo - si affrancherà solo con l'unità d'Italia.

Nei primi decenni del secolo la città conosce ancora un certo splendore: l'alta considerazione in cui è tenuta si riflette anche nella simpatia e benevolenza di Francesco Guicciardini, presidente della Romagna dal '23 al '26. Lo storico fiorentino, infatti, si trattiene a Faenza per quasi tutto il 1525. E Machiavelli rivede la sua "Mandragola", dotandola di cinque nuove canzoni, proprio in vista di una rappresentazione da tenersi a Faenza, durante il Carnevale del '26, in onore di papa Clemente VII.

Con il progredire del secolo, però, l'importanza della cittadina scade sempre più. Come tutti i territori periferici dello Stato Pontificio, Faenza è considerata una realtà da sfruttare con tasse e balzelli, o viene usata per approvvigionare gli eserciti papalini ed alleati, sempre impegnati nelle guerre. L'eredità di questi "passaggi" è pesante: una serie di carestie e pestilenze tormenta la città per tutto il '500.

Nel 1567, poco dopo la conclusione del Concilio di Trento, si istituisce a Faenza il Tribunale della Santa Inquisizione per la Romagna, che instaura un regime di terrore. Vengono condannati anche due valenti pittori faentini, Jacopo Bertucci e il nipote Giovan Battista, costretti ad abiurare la fede luterana per scampare il patibolo. Di questi artisti, come di un altro eccellente maestro, Ferraù Fenzoni (suo è il grande affresco nella facciata interna del Duomo di Todi), si conservano opere in Pinacoteca. Altro pittore faentino di talento è il manierista Marco Marchetti, che studia a Firenze e poi vi lavora ad affrescare le sale di Palazzo della Signoria. Di lui, a Faenza, è rimasta la decorazione a raffinate grottesche della volta ad ombrello della "Molinella". Le grandi opere architettoniche invece - se si esclude il completamento del Duomo - si sono fermate con il tramonto dei Manfredi.